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The Florence Experiment, la mostra-esperimento-scientifico, di Carsten Höller e Stefano Mancuso inaugura domani a Palazzo Strozzi

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 The Florence Experiment Slides, 2018 (Scivoli nel Cortile di Palazzo Strozzi) (Rendering di Michele Giuseppe Onali)

The Florence Experiment Slides, 2018 (Scivoli nel Cortile di Palazzo Strozzi) (Rendering di Michele Giuseppe Onali)

Da domani ‘The Florence Experiment’ (ne ho già parlato qui) aprirà al pubblico. E Palazzo Strozzi si trasformerà in un laboratorio. La mostra nata dalla collaborazione del famoso artista Carsten Höller e dal neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, infatti, oltre a divertire sarà anche un vero e proprio esperimento scientifico. 

‘The Florence Experiment’ si  propone di dimostrare che le piante risentono delle nostre emozioni e ne danno prova visibile con la loro crescita. Per farlo non mancano due dei famosi e monumentali scivoli di Carsten Höller, collocati nel cortile interno di Palazzo Strozzi, per collegare il loggiato del secondo piano con il suolo. 

Un salto di 20 metri, un tragitto di circa 50, che i visitatori percorreranno mediamente in 15 secondi (a una velocità compresa tra i 4 e i 7 metri al secondo). Ma non tutti, perché la partecipazione è su base volontaria per i maggiori di 14 anni e non è consentita a chi soffre di diverse patologie (qui ci sono le avvertenze). Ce n’è abbastanza per suscitare emozioni forti anche nei più coraggiosi. Ed è qui che entra in gioco la scienza. Infatti, ogni settimana 500 persone, verranno scelte casualmente per intraprendere la discesa portando con sé una pianta di fagiolo. Quest’ultima verrà poi consegnata a un team di scienziati (nel laboratorio allestito alla Strozzina) che ne analizzerà i parametri fotosintetici e le molecole emesse come reazione alla discesa e alla vicinanza ad una persona sottoposta alla stessa esperienza. 

L’esperimento prosegue poi alla Strozzina dove sono state ricavate anche due sale proiezione separate. In una si potranno vedere spezzoni di film comici, mentre nell’altra scene tratte da degli horror. La paura o il divertimento degli spettatori produrranno composti chimici volatili differenti che, attraverso due condotti di aspirazione, saranno trasportati sulla facciata di Palazzo Strozzi, influenzando la crescita di piante di glicine rampicanti disposte su grandi strutture tubolari a forma di Y ('Plant Decision-Making Based on Human Smell of Fear and Joy'). Gli scienziati prevedono che i due gruppi di piante prenderanno addirittura direzioni diverse.

Non passa mese senza che siano descritti nuovi e sorprendenti comportamenti delle piante- scrive nel suo saggio Stefano Mancuso- Molti di questi sono sufficientemente complessi da non poter essere descritti compiutamente senza far ricorso al termine di intelligenza.”  

La mostra ‘The Florence Experiment’ di Carsten Höller in collaborazione a Stefano Mancuso è curata dal direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi Arturo Galasino e rimarrà aperta fino al 26 agosto. Appena in tempo per cominciare a preparare il Piano Nobile di Palazzo Strozzi per l’importante personale di Marina Abramovic di fine settembre.

NOTA BENE: Inserirò le immagini definitive appena disponibili

 Plant Decision-Making Based on Human Smell of Fear and Joy, 2018 (Piante di glicine sulla Facciata di Palazzo Strozzi la cui crescita è influenzata dalle emozioni di paura o divertimento dei visitatori) (Rendering di Michele Giuseppe Onali)

Plant Decision-Making Based on Human Smell of Fear and Joy, 2018 (Piante di glicine sulla Facciata di Palazzo Strozzi la cui crescita è influenzata dalle emozioni di paura o divertimento dei visitatori) (Rendering di Michele Giuseppe Onali)

 Solandra Greenhouse (Garden of Love), “Carnegie International 2004”, Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, 2004

Solandra Greenhouse (Garden of Love), “Carnegie International 2004”, Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, 2004

 The Florence Experiment Slides, 2018 (Scivoli nel Cortile di Palazzo Strozzi) (Rendering di Michele Giuseppe Onali)

The Florence Experiment Slides, 2018 (Scivoli nel Cortile di Palazzo Strozzi) (Rendering di Michele Giuseppe Onali)

 The Florence Experiment, 2018, scivoli in fase di allestimento, (Foto di Martino Margheri)

The Florence Experiment, 2018, scivoli in fase di allestimento, (Foto di Martino Margheri)

 Carsten Höller., Institute of Phytopathology, University of Kiel, ca. 1988. © Carsten Höller Studio, photographer unknown.

Carsten Höller., Institute of Phytopathology, University of Kiel, ca. 1988. © Carsten Höller Studio, photographer unknown.


Le saline europee come dipinti dalle incredibili forme e colori nella fotografia aerea di Tom Hegen

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 all images © Tom Hegen

all images © Tom Hegen

Gli scatti che compongono ‘The salt series’ di Tom Hegen spingono la fotografia ad esplorare i territori dell’astrattismo. Ma quello che colpisce in queste immagini di stagni, colti con la fotografia aerea, sono i colori: verdi e azzurri ma anche rosa, arancioni o rossi vivaci.

Per realizzare ’The salt series’ il tedesco Tom Hegen ha girato l’Europa focalizzando la sua attenzione sui siti in cui si produce sale. Ha fotografato poi queste aree con un drone. La posizione atipica della camera (dall’alto puntata direttamente verso il basso) gli ha permesso di catturarne le forme inconsuete e i colori, talvolta, sfavillanti.

Il sale marino deriva dalla naturale evaporazione dell'acqua di mare dagli stagni artificiali- scrive Hegen sul suo sito internet- Il colore dell'acqua indica la salinità degli stagni. Infatti i microorganismi cambiano colore quando aumenta la salinità dello stagno. I colori possono variare dalle tonalità più chiare del verde al rosso vivace.”

Tom Hegen ha concentrato la sua attenzione sulle saline perché sono una delle forme più antiche di intervento umano sugli spazi naturali. Questo interesse per le aree produttive lo rende simile al tedesco Bernhard Lang (ne ho parlato per esempio qui) anche se il soggetto non può che avvicinarlo al canadese David Burdeny (ne ho parlato qui). Tuttavia per quanto entrambi questi fotografi si siano specializzati nella fotografia aerea nessuno dei due usa i droni.

Tom Hegen, invece, si è pure guadagnato il premio DJI Drone Photography Award per la sua abilità in questo tipo di scatti.
"Sono attratto dall'astrazione che deriva dal cambiamento di prospettiva: vedere qualcosa di familiare da un nuovo punto di vista. Un drone ti consente solamente di vedere di più."

Per vedere altri scatti di Tom Hegen si può dare uno sguardo al suo sito web o consultare i suoi account Instagram e Behance. (via Creativeboom)

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Kevin Peterson dipinge in modo straordinariamente realistico storie di bimbi e animali selvatici sullo sfondo di architetture degradate

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Kevin Peterson  dipinge bambini e animali che se ne vanno a spasso insieme, in città abbandonate e decadenti. E lo fa con un iperrealismo talmente impeccabile da sembrare fotografia.

Il mondo dell’artista texano Kevin Peterson è composto da elementi che presi da soli sarebbero banali: ci sono dei bei bambini in pose solo apparentemente naturali, degli animali selvatici altrettanto belli e ingenui. Intorno a loro solo edifici abbandonati.  Anche il tema a voler ben vedere non ha niente di innovativo: la purezza e la corruzione. 

Ma Peterson ha avuto l’idea di mettere insieme registri stilistici così diversi. Tanto che i suoi quadri danno l’impressione di essere un collage di fotografie di vario tipo. I bambini sembrano, salvo rari casi, usciti da un blog di moda per l’infanzia; gli animali per due terzi da un documentario naturalistico e per un terzo da quel tipo di illustrazione che suscita sentimenti di tenerezza (biglietti d’auguri ad esempio); i paesaggi da quel filone fotogiornalistico che documenta il degrado urbano. Immagini che si possono trovare in successione navigando sul web o scorrendo velocemente una rivista, che però, di rado, si vedono consapevolmente riunite.
Ma a fare la differenza è il fatto che non sono fotografie ne collages. Peterson dipinge tutto, in modo minuzioso e iperrealistico.

Kevin Peterson  ha studiato arte ma ha anche una laurea in psicologia e dipinge a tempo pieno dal 2005. Lo rappresenta la galleria Thinkspace (Culver City, California). Per seguire il suo lavoro passo a passo Facebook è la scelta migliore. (via Colossal)

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E’ ‘Flower Obsession’ per Yayoi Kusama che fa ricoprire dai visitatori una serie di stanze, dai pavimenti ai soffitti, di gerbere rosse

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L’ossessione della famosissima nonna dell’arte contemporanea Yayoi Kusama (oltre alle zucche) sono sempre stati i pois. Li ha usati per ricoprire tele su tele nei suoi anni giovanili a New York, sono stati spesso parte delle ‘Infinity Mirror Rooms’ e sempre questi ultimi le hanno ispirato la nota installazione ‘The obliteration room’ in cui, dopo aver ricostruito degli ambienti domestici in gallerie o musei, ha invitato i visitatori ad appiccicare degli adesivi a forma di “dot” ad ogni superficie. Seggiole, tavole, pareti, pavimenti, ovunque insomma. 

Meno noto è il legame di Yayoi Kusama con i fiori. Ma c’è ed è forte. Ne è una prova ‘Flower Obsession’ (2017) eseguita su commissione per l’inaugurazione della triennale della National Gallery of Victoria (Australia).

In cui, come in ‘The obliteration room’, ha invitato i visitatori ad appiccicare ovunque degli adesivi. Ma questa volta erano degli stichers a forma di gerbera o delle vere e propie margheritone rosse sintetiche.

L’artista, che dall’infanzia soffre di allucinazioni, ha spiegato: "Un giorno [da bambina], dopo aver osservato un modello di fiori rossi sulla tovaglia, ho alzato lo sguardo per vedere che il soffitto, le finestre e le colonne sembravano intonacate con lo stesso motivo floreale rosso. Ho visto l'intera stanza, tutto il mio corpo e universo coperto di fiori rossi, e in quell'istante la mia anima è stata cancellata ... Quella non era un'illusione, ma la realtà stessa."

I fiori emergono con una certa prepotenza nella produzione recente dell’artista giapponese. Se volendo possono essere evocati dall’opera ‘Narcissus garden’ (se non altro perché tradizionalmente installata in un giardino), sono certamente elemento centrale di ’With all my love for the tulips, I pray forever’ . E adesso appunto di ‘Flower Obsession’.

La Triennale della NGV si è recentemente conclusa. Tuttavia sul sito web del grande museo è possibile visualizzare altro materiale riguardo all’evento.  
Per saperne di più su Yayoi Kusama (a cui Tokyo ha recentemente dedicato un intero museo) le possibilità sono infinite ma uno sguardo al sito internet ufficiale dell’artista non può mancare (via Colossal)

 Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

 Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

 Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

 Yayoi Kusama’s Flower obsession 2017 on display at NGV Triennial 2017. Photo: Sam Wong

Yayoi Kusama’s Flower obsession 2017 on display at NGV Triennial 2017. Photo: Sam Wong

 Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

 Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

Exhibition image of Yayoi Kusama’s Flower Obsession 2017 on display in NGV Triennial at NGV International 2017. Photo: Eugene Hyland

Le sculture di Onishi Yasuaki, come magiche montagne fluttuanti fatte di… colla a caldo e fogli di plastica da imballaggio

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 Onishi Yasuaki, 'Reverse of Volume FC', 2015 / glue, plastic sheet, other. RELIEF(S) / Frac Centre, Orleans France

Onishi Yasuaki, 'Reverse of Volume FC', 2015 / glue, plastic sheet, other. RELIEF(S) / Frac Centre, Orleans France

Le sculture dell’artista giapponese Onishi Yasuaki evocano immagini di paesaggio: montagne, onde, foreste. E hanno molto a che fare con la pittura perché sono selve di segni che avvolgono lo spettatore rendendolo partecipe di un mondo in cui velature e lievi chiaroscuri raggiungono la terza dimensione. 

Un risultato che ha dell’incredibile se si tiene conto che Yasuaki lavora soprattutto con fogli di plastica e colla a caldo. Cioè con dei materiali poveri, leggeri e privi di forma.

Le opere che fanno parte di ‘Reverse of volume’, una delle serie di installazioni più famose di Onishi Yasuaki, attualmente in mostra in Val di Sella (Artesella-The Contemporary Mountain; Malga Costa; Trentino), viste da fuori sembrano montagne fluttuanti, mentre via via che ci si avvicina assomigliano più a caverne o nubi. E di sicuro sono una forma di pittura tridimensionale carica di tratti e delicati giochi di luce che ricordano i chiaroscuri.

Per l’artista è lo spazio lasciato libero da una scultura, che va considerato soggetto. Per questo le sue opere fluttuano sempre: se le statue poggiano a terra va da sé che lo spazio vuoto è intorno ma soprattutto sotto e sopra di loro.

Per creare le sue installazioni Yasuaki fa delle torri di scatoloni che ricopre con dei fogli di plastica, piazza dei ganci sul soffitto e comincia a far colare la colla a caldo dall’alto. Poi toglie le scatole. Fa tutto da solo con l’aiuto di un assistente.
Nonostante la mole di lavoro necessaria per arrivare alla realizzazione dell’opere le sue sono sculture effimere.

Così il curatore Joshua Fisher ha descritto la chiusura della mostra di Yasuaki alla Rice University Art Gallery (Texas): “Naturalmente, nulla dura per sempre (specialmente la colla a caldo) e l'installazione temporanea di Onishi doveva essere smantellata, ma ciò sembrava adattarsi ad un'installazione che allude al mondo naturale e ai fenomeni in costante evoluzione della gravità, della luce e della percezione. Dopo la disinstallazione, la galleria era completamente vuota, fatta eccezione per alcuni sacchi neri dei rifiuti pieni di fogli di plastica e colla.”

L’installazione realizzata per Artesella sarà visitabile fino a maggio 2018. Per vedere, invece, molte altre foto delle opere di Onishi Yasuaki c’è il sito internet ma è anche possibile tenersi sempre aggiornati sul suo lavoro seguendolo su Instagram o Facebook.

 Onishi Yasuaki, 'Reverse of Volume', Artesella

Onishi Yasuaki, 'Reverse of Volume', Artesella

 Onishi, Yasuaki, 'Reverse of Volume EC', 2015 / glue, plastic sheet, other, VIDE ET PLEIN / Maison Bleu Studio at Espace Commines, Paris France. photo: Takeshi Sugiura

Onishi, Yasuaki, 'Reverse of Volume EC', 2015 / glue, plastic sheet, other, VIDE ET PLEIN / Maison Bleu Studio at Espace Commines, Paris France. photo: Takeshi Sugiura

 Onishi, Yasuaki, 'Reverse of Volume EC', 2015 / glue, plastic sheet, other, VIDE ET PLEIN / Maison Bleu Studio at Espace Commines, Paris France. photo: Takeshi Sugiura

Onishi, Yasuaki, 'Reverse of Volume EC', 2015 / glue, plastic sheet, other, VIDE ET PLEIN / Maison Bleu Studio at Espace Commines, Paris France. photo: Takeshi Sugiura

 Onishi Yasuaki, 'Vertical Emptiness FP', 2013 / tree branch, glue, urea, other, Fresh Paint 8 International Exhibition – Tilted / Yarid Hamizrach, Tel Aviv Israel

Onishi Yasuaki, 'Vertical Emptiness FP', 2013 / tree branch, glue, urea, other, Fresh Paint 8 International Exhibition – Tilted / Yarid Hamizrach, Tel Aviv Israel

 Onishi Yasuaki, 'Vertical Emptiness GOP', 2014 / h315, w553, d714cm / wire, glue, urea, other, solo exhibition / Gallery Out of Place TOKIO, Tokyo Japan

Onishi Yasuaki, 'Vertical Emptiness GOP', 2014 / h315, w553, d714cm / wire, glue, urea, other, solo exhibition / Gallery Out of Place TOKIO, Tokyo Japan

 Onishi Yasuaki, 'Vertical Emptiness GOP', 2014, (particular), wire, glue, urea, other, solo exhibition / Gallery Out of Place TOKIO, Tokyo Japan

Onishi Yasuaki, 'Vertical Emptiness GOP', 2014, (particular), wire, glue, urea, other, solo exhibition / Gallery Out of Place TOKIO, Tokyo Japan

 Onishi Yasuaki, 'Inside Volume', 2015 / h110(80), w65, d65cm / acrylic box, glue, other, Art in the Office CCC AWARDS / Daikanyama T-SITE Garden Gallery , Tokyo Japan

Onishi Yasuaki, 'Inside Volume', 2015 / h110(80), w65, d65cm / acrylic box, glue, other, Art in the Office CCC AWARDS / Daikanyama T-SITE Garden Gallery , Tokyo Japan

 Onishi Yasuaki, 'Inside Volume', 2015, (particular), acrylic box, glue, other, Art in the Office CCC AWARDS / Daikanyama T-SITE Garden Gallery , Tokyo Japan

Onishi Yasuaki, 'Inside Volume', 2015, (particular), acrylic box, glue, other, Art in the Office CCC AWARDS / Daikanyama T-SITE Garden Gallery , Tokyo Japan

I camion pakistani ‘Jingle Trucks’ tanto decorati da essere diventati a pieno titolo opere d’arte a quattro ruote

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 Photo credit:  Alexandros.Papadopoulos/Wikimedia

Photo credit: Alexandros.Papadopoulos/Wikimedia

Coloratissimi, decorati e improbabili i camion pakistani hanno delle campane attaccate al telaio. Tante campane. Così appena si muovono intorno è tutto un tintinnare. E’ per questo che i militari statunitensi in Afganistan (un paese in cui questi mezzi si vedono spesso passare) li hanno ribattezzati ‘Jingle Trucks’.

Ma non è la sola particolarità di questi mezzi di trasporto che sono un tale tripudio di decorazioni (a mosaico, dipinte, in legno, in metallo, plastica ecc.) da superare a buon diritto il regno del kitsch ed entrare in quello dell’arte popolare. 
"(Sono come) una galleria nazionale senza muri- scrive l’esperto d’arte dell’Herald Tribune Richard Covington- una forma libera, caleidoscopica esibizione in perpetuo movimento”.

Un punto di vista di certo condiviso della prestigiosa istituzione americana Smithsonian che ne conserva uno nella sua collezione permanente (decorato dall’artista Haider Ali nel 2002).

I camion per il trasporto di merci sono i più conosciuti ma in Pakistan sono in buona compagnia. Infatti, è prassi comune decorare riccamente anche navi cisterna, autobus, furgoncini e risciò 

Inutile dire che nell’aspetto dei ‘jngle trucks’ nulla è lasciato al caso. Persino gli abitacoli (ricoperti rigorosamente in velluto) sono curati nei minimi dettagli.

Questa abitudine ha origine negli anni ‘20 quando si cominciò a diffondere l’uso dei camion di fabbricazione britannica Longfighter Bedfords. Le ditte dipingevano sulle fiancate il proprio logo in modo che anche gli analfabeti potessero sapere di chi era il camion. E a poco a poco nacque l’abitudine di arricchirli. Negli anni ’50 fecero la loro comparsa delle decorazioni dipinte molto più estese. Mentre con il boom economico degli anni ’60 i camion arrivarono alla loro forma attuale.
Fatto sta che intorno a questa abitudine si è costruita tutta un’economia (ci sono artigiani specializzati, negozi che vendono ornamenti ecc.). Basti pensare che il solo lavoro di pittura e carrozzeria di base costa intorno ai 2500 dollari (corrispondenti allo stipendio di due anni di lavoro di un camionista). Ma non sono pochi quelli che si spingono a spendere fino a 10mila dollari.
E non basta perchè molti autisti tornano all’officina ogni 3-4 anni per rinnovare completamente l’immagine del veicolo.

"I camionisti non spendono nemmeno tanto denaro nelle loro case", afferma Durriya Kazi, a capo del dipartimento di studi visivi dell'Università di Karachi."Ricordo un autista che mi ha detto che ha messo la sua vita e il suo sostentamento nel camion. Se non l'avesse onorato con il giusto lavoro di pittura, si sarebbe sentito ingrato. " (via Amusing Planet)

 Haider Ali and Jamil-ud-Din’s 2002 Jingle Truck, commissioned by the Smithsonian Institution. photo: Mary Martin, Smithsonian Institution

Haider Ali and Jamil-ud-Din’s 2002 Jingle Truck, commissioned by the Smithsonian Institution. photo: Mary Martin, Smithsonian Institution

 Photo credit:  carol mitchell/Flickr

Photo credit: carol mitchell/Flickr

 Photo credit:  Olaf Kellerhoff/Flickr

Photo credit: Olaf Kellerhoff/Flickr

 Photo credit:  carol mitchell/Flickr

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 Photo credit:  Benny Lin/Flickr

Photo credit: Benny Lin/Flickr

 Photo credit:  ISAF Public Affairs/Flickr

Photo credit: ISAF Public Affairs/Flickr

 Photo credit:  Murtaza Imran Ali/Wikimedia

Photo credit: Murtaza Imran Ali/Wikimedia

I giardini botanici europei fotografati da Samuel Zeller, tanto trasfigurati da sembrare dipinti impressionisti

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Botanical’ è l’ultima serie di immagini del fotografo svizzero Samuel Zeller. Come dice il nome si ispira ai giardini botanici. Ritrae, infatti, piante più o meno esotiche nascoste dietro ai vetri di una serra. 
Un’idea interessante e romantica, pervasa di spirito vittoriano, che Zeller è riuscito a trasformare in un’infilata di fotografie che ricordano certe opere degli impressionisti ma anche quelle dei loro colleghi inglesi che dipingevano tra ‘800 e ‘900. Quadri ad olio, insomma, e in un segmento di Storia dell’Arte non tanto facile da evocare per giunta.

"La natura protetta dagli elementi mi ispira- ha detto- dietro ogni finestra è nascosto un dipinto. I fiori che siedono sul telaio metallico, giocando l'un con l'altro su un unico piano come fosse una tela, le foglie  che crescono nella più piccola asperità. Io ho trovato in questi giardini la quiete di un museo. "

D’altra parte per Samuel Zeller ‘Botanical’ è stato un progetto molto sentito che lo ha spinto a viaggiare per tutta Europa e ha segnato un nuovo inizio della sua vita professionale.
Tutto ebbe inizio nel 2015 quando, dopo una “giornata particolarmente brutta in ufficio”, Zeller, invece di tornare direttamente a casa, fece tappa in un giardino botanico: "La rabbia e l’ansia avevano aumentato la mia sensibilità- spiega- in quell’isola verde all'interno della città, ho scoperto quello che vedevo come una serie di dipinti dietro il vetro, una realtà rifratta: quel giorno ho scattato le prime 10 fotografie del progetto".
Un anno dopo Zeller abbandonò il suo lavoro di designer per mettersi a fare il fotografo a tempo pieno.

Ormai Samuel Zeller vive e lavora a Ginevra come fotografo. Tra i suoi ambiti di specializzazione ci sono le belle arti. 
Botanical’ è diventato un libro (pubblicato da Hoxton Mini Press). Per vedere altre fotografie di giardini botanici che sembrano dipinti d’altri tempi, comunque, ci sono il suo sito internet e l’account instangram. (via Creativeboom)

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Gli antichi capolavori reimmaginati da Ignasi Monreal sono diventati #GucciHallucination l’edizione limitata felpe e T-shirt di Gucci

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L’illustratore spagnolo Ignasi Monreal, giovanissimo, è già una figura centrale nel mondo dell’alta moda. Nei mesi scorsi le immagini che ha creato per la campagna pubblicitaria primavera\estate 2018 di Gucci sono apparse sulle riviste di tutto il mondo. Adesso si sono trasformate in un’edizione limitata di felpe e T-shirt. 
Si chiama #GucciHallucination in onore della fantasia surreale di Monreal e dell’onnipresente mondo dei social. 

Del resto Ignasi Monreal, che ha cominciato a collaborare con il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, con il progetto #guccigram nel 2015, non si può definire un nostalgico. Lavora sempre in digitale e ha dichiarato : “i miei strumenti di lavoro sono un tablet e Photoshop.”

#GucciHallucination non fa eccezione. Per quanto, tutte le illustrazioni che compongono la campagna pubblicitaria da cui prende le mosse, siano un mix di immagini provenienti da mondi diversi (mito, fumetto, cartone animato ecc.), è la Storia dell’Arte la loro stella polare. I capolavori dei grandi pittori del passato, infatti, sono il canovaccio da cui prende le mosse ogni singola composizione.

Ho una selezione molto eclettica di maestri di riferimento- ha detto in un’intervista rilasciata alla rivista Esquire- ma le mie più grandi influenze sono quelle che provengono dai grandi maestri spagnoli, come Velázquez, Dalì, Goya e Picasso. Le loro straordinarie creazioni hanno sicuramente influenzato il mio lavoro.” Forse perché un po’ di sano campanilismo anche nell’iper-globalizzato mondo dell’arte male non fa.
Anche se non si può non notare in questa serie di immagini l’influsso plasmante del Surrealismo.

Sia come sia l’edizione limitata #GucciHallucination porta questo strano universo su capi basici come magliette e felpe. La tiratura è di 200 pezzi per ogni modello e il prezzo è tutt'altro che popolare.  Per tenersi aggiornati sul lavoro di Ignasi Monreal, invece, basta consultare il suo sito internet o seguirlo sui vari social, instagram, ovviamente, in prima linea.

 tutte le immagini per gentile concessione di Gucci / Ignasi Monreal

tutte le immagini per gentile concessione di Gucci / Ignasi Monreal

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‘Melting Memories’ di Refik Anodol è la prima installazione a mostrare come cervello evoca i ricordi. Dati alla mano

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L’artista multimediale e designer di origini turche Refik Anadol ha fatto un lavoro monumentale per realizzare l’installazione ‘Melting Memories’. Perché l’opera, che si propone di mostrare come funziona il cervello nel tempo, non è di fantasia ma si basa sui dati degli elettroencefalogrammi.

Presentata nel 2018 alla Pilevneli Gallery di Istanbul, ‘Melting Memories’, già a vederla suscita stupore. E’ composta da un enorme schermo al LED (quasi 5 metri per 6) fatto su misura e da schiuma rigida fresata CNC. Per realizzarla, poi, Anadol ha combinato dipinti basati sui dati, proiezioni di luce e sculture poggiate sugli ‘augmented data’ (l’artista ha cioè aumentato il numero di immagini nel set di dati disponibili). 

Il risultato di tanta tecnologia combinata a una certa dose di rigore scientifico è morbido e cangiante. A momenti le forme che si creano sembrano fiori che sbocciano, poi montagne viste dall’alto, o nubi, onde e ghiacciai.

Per raccogliere i dati necessari a dare vita a questa incredibile installazione Refik Anadol ha condotto degli esperimenti al Laboratorio Neuroscape dell’Università della California (San Francisco). "Anadol raccoglie dati sui meccanismi neurali del controllo cognitivo da un EEG (elettroencefalogramma)- spiega il suo sito web- che misura i cambiamenti nell'attività delle onde cerebrali e fornisce le prove di come funziona il cervello nel tempo. Questi set di dati costituiscono gli elementi costitutivi degli algoritmi unici di cui l'artista ha bisogno per creare le strutture visive multidimensionali in mostra. "

Questa installazione parla di memoria e di come il nostro cervello si muove. Quindi in qualche modo anche di nostalgia e pensiero. Volendo persino di intelligenza artificiale. Anche se tutte le opere di Refik Anadol in fondo soprattutto esplorano la terra di confine tra realtà fisica e digitale. 

Per vedere altre opere di  Refik Anadol ci sono il suo sito web ma anche gli account Instagram, Vimeo e Behance. (via Colossal)

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Yakushima, la vera foresta della principessa Mononoke nelle splendide foto di Raphael Olivier

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 Raphael Olivier, Yakushima- Forest Spirit. All images ©Raphael Olivier

Raphael Olivier, Yakushima- Forest Spirit. All images ©Raphael Olivier

Nella sua ultima serie ‘Yakushima - The Forest Spirit’ il fotografo francese Raphael Olivier (di cui ho parlato per esempio qui) ci restituisce il paesaggio fatato e inquietante della più antica foresta temperata del mondo.  
Situata sull’omonima isola giapponese, la foresta è diventata famosa attraverso il film d’animazione ‘Principessa Mononoke’ del grande Hayao Miyazaki, e, secondo Raphael Olivier, anche dal vivo “sembra quasi irreale quanto nel film.”

Del resto gli scatti di Olivier, silenziosi e aperti come al solito, ci portano in un mondo parallelo dove i consueti punti di riferimento vengono meno e le linee curve, di rami, radici e terreno, costituiscono un fitto reticolo, inestricabile. ma non cupo.  Un paesaggio che nelle fotografie ci appare deserto ma che sembra pulsare di vita.
I giochi di luce tra le fitte fronde fanno il resto e Olivier si limita a coglierli, senza forzare in alcun modo l’intensità del paesaggio.

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Di origini francesi, Raphael Olivier, da diversi anni vive e lavora a Singapore. Di lì, viaggia per tutta l’Asia, che ci racconta attraverso i suoi progetti personali come, appunto, ‘Yakushima - The Forest Spirt’. Ma soprattutto nelle tante serie incentrate su architettura e urbanistica.

Olivier, però, non si limita a documentare le forme degli edifici ma si basa sempre su un particolare curioso della Storia recente di un luogo nel tentativo di tracciarne in modo sintetico le contraddizioni o le caratteristiche che balzano all’occhio (come nella serie ‘Ordos - A Failed Utopia’). Per vedere altre sue fotografie oltre al sito web si può ricorrere all’account Behance o Instagram.

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Per quanto riguarda l’isola di Yakushima e la sua secolare foresta, infine va aggiunto, che in quanto sfondo del film ‘Principessa Mononoke’ probabilmente comparirà nel parco divertimenti ‘Ghibli Park’ (frutto di un accordo tra lo Studio Ghibli e la prefettura di Aichi) che aprirà nel 2022 e di cui in questi giorni sono apparse le prime illustrazioni.

Raphael-Olivier-yakushima-the-spirit-of-forest-03 Raphael-Olivier-yakushima-the-spirit-of-forest-04 Raphael-Olivier-07.jpg Raphael-Olivier-02.jpg Raphael-Olivier-09.jpg Raphael-Olivier-10.jpg Raphael-Olivier-04.jpg Raphael-Olivier-11.jpg

Patrick Jacobs crea minuscoli paesaggi che sembrano antichi dipinti con resina, borotalco capelli e peli di gatto

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 Patrick Jacobs, Pink Forest, 2018  (335 x 457 x 320 cm). Paper, foam, clay, aluminum, styrene, epoxy, glue, polyurethane, acrylic paint, wood, lighting, fabric.

Patrick Jacobs, Pink Forest, 2018  (335 x 457 x 320 cm). Paper, foam, clay, aluminum, styrene, epoxy, glue, polyurethane, acrylic paint, wood, lighting, fabric.

L’artista statunitense Patrick Jacobs crea degli incredibili diorami, talmente realistici da sembrare fotografie, e spesso tanto minuscoli che è necessaria una lente per osservarli. Raffigurano dei paesaggi e sono illuminati dall’interno.

Per farli Jacobs usa per lo più materiali sintetici, come la resina o il poliuretano, ma non disdegna neppure cose quotidiane come borotalco, capelli o peli di gatto.

I diorami di Patrick Jacobs rileggono il genere del paesaggio in chiave contemporanea, con sottile ironia. Tuttavia a prima vista non si avvertono distorsioni. Le minuscole composizioni scultoree di Jacobs sono talmente perfette da sembrare fotografie. Si tratta di scorci di prati fioriti o angoli di sottobosco. A prevalere è la visione sublime della natura, tanto cara ai pittori inglesi del seicento
Le si può osservare solo da una piccola lente di vetro. Quasi uno spioncino. E, illuminate dall’interno, spostano il punto di fuga tanto lontano da dare l’impressione di sbirciare in un mondo parallelo, dall’orizzonte apparentemente infinito. 

Jacobs si ispira a fonti diverse. A differenza di quanto si potrebbe pensare, infatti, prende spunto non solo dalla pittura paesaggistica ma anche dalle broshures di aziende chimiche specializzate in antiparassitari per il giardino e la casa. 
Si può quindi immaginare un personaggio, che si aggira ansioso in cerca di parassiti inesistenti, imbattendosi invece nei microscopici mondi che l’artista ci propone.

Ma non solo perché le lenti di vetro di Jacobs richiamano alla mente il Black Mirror (o Claude Glass) usato dai pittori di paesaggio inglesi tra il ‘700 e l‘800. Questo dispositivo viene chiamato così perché, appunto, di uno specchio tinto da un colore scuro si trattava. Serviva ad astrarre gli scorci dall’ambiente circostante e a semplificare la scala cromatica quel tanto che bastava per avere un soggetto pronto da dipingere secondo i gusti dell’epoca. 
Nell’ottica di Jacobs insomma, anche il Cluade glass rimanda all’ossessione maniacale dell’ uomo per il controllo.

In occasione della fiera d’arte contemporanea Armory Show, il New York Times ha inserito Patrick Jacobs tra i 30 artisti da vedere assolutamente (come Berndnaut Smilde di cui ho parlato qui).  Dal 30 giugno Jacobs sarà in mostra al Brandywine Museum of Art (nella cittadina di Chadds Ford in Pennsylvania). In Italia la galleria The Pool NYC di Milano ha delle sue opere esposte in modo permanente. Ma per vedere altri suoi diorami senza muoversi da casa ci sono il suo sito internet e l’account instagram dell’artista.

 Patrick Jacobs, Pink Forest, 2018  (detail;; 335 x 457 x 320 cm). Paper, foam, clay, aluminum, styrene, epoxy, glue, polyurethane, acrylic paint, wood, lighting, fabric.

Patrick Jacobs, Pink Forest, 2018  (detail;; 335 x 457 x 320 cm). Paper, foam, clay, aluminum, styrene, epoxy, glue, polyurethane, acrylic paint, wood, lighting, fabric.

 Patrick Jacobs Spiral, 2017 Diorama viewed through 19 cm window .(82 x 83 x 55 cm).Styrene, acrylic, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

Patrick Jacobs Spiral, 2017 Diorama viewed through 19 cm window .(82 x 83 x 55 cm).Styrene, acrylic, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

 Patrick Jacobs Spiral, 2017 (82 x 83 x 55 cm).Styrene, acrylic, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood,steel, lighting, BK7 glass.

Patrick Jacobs Spiral, 2017 (82 x 83 x 55 cm).Styrene, acrylic, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood,steel, lighting, BK7 glass.

 Patrick Jacobs, Mural Installation with Field with Dandelions, 2016 Philadelphia, (76 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, cat hair,aluminum foil, polyurethane foam, ash, talc, starch,acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting,BK7 glass.\ Three-dimensional diorama viewed

Patrick Jacobs, Mural Installation with Field with Dandelions, 2016 Philadelphia, (76 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, cat hair,aluminum foil, polyurethane foam, ash, talc, starch,acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting,BK7 glass.\ Three-dimensional diorama viewed

 Patrick Jacobs, Mural Installation with Field with Dandelions, 2016 Philadelphia, (76 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, cat hair,aluminum foil, polyurethane foam, ash, talc, starch,acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting,BK7 glass.\ Three-dimensional diorama viewed

Patrick Jacobs, Mural Installation with Field with Dandelions, 2016 Philadelphia, (76 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, cat hair,aluminum foil, polyurethane foam, ash, talc, starch,acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting,BK7 glass.\ Three-dimensional diorama viewed

 Patrick Jacobs, Field with Dandelions, 2015 Diorama viewed through 19 cm window. Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

Patrick Jacobs, Field with Dandelions, 2015 Diorama viewed through 19 cm window. Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

 Patrick Jacobs, Oak Stump with Red-Banded Polypore, 2013 Diorama viewed through 19 cm window. (76.2 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

Patrick Jacobs, Oak Stump with Red-Banded Polypore, 2013 Diorama viewed through 19 cm window. (76.2 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

 Patrick Jacobs, Oak Stump with Red-Banded Polypore, 2013, (detail, 76.2 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

Patrick Jacobs, Oak Stump with Red-Banded Polypore, 2013, (detail, 76.2 x 112 x 74 cm). Styrene, acrylic, cast neoprene, paper, polyurethane foam, ash, talc, starch, acrylite, vinyl film, copper, wood, steel, lighting, BK7 glass.

La scultura ‘Bank of Sand, Sand of Bank’ di Huang Yong Ping è una banca di sabbia che pesa 20 tonnellate

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C’è chi fa castelli d sabbia, l’artista cinese di nascita e francese d’adozione Huang Yong Ping, invece, con la sabbia c’ha fatto una banca. Una grande riproduzione dell’edificio che è stato sede della HSBC di Shanghai. 
La scultura, intitolata ‘Bank of sand, Sand of bank, è attualmente in mostra alla Gladson Gallery di New York e pesa ben 20 tonnellate.

Interessato a un’analisi del presente e delle sue dinamiche- Scrive il sito di Palazzo Grassi a proposito di Huang Yong Ping- l’artista riflette sulla globalizzazione nei suoi aspetti più evidenti e controversi. Allo stesso tempo si fa portavoce, attraverso una pratica basata su installazioni monumentali e sculture, di un dialogo tra culture e religioni, proponendo una visione di Oriente e Occidente come poli complementari.
Ed è in quest’ottica che va vista ‘Bank of sand, Sand of bank’. 

L’edificio HSBC di Shanghai, progettato dallo studio di architettura britannico Palmer & Turner Architects and Surveyors in rigoroso stile neoclassico, venne  inaugurato nel 1923. Aveva interni lussuosi (all’epoca era già completamente riscaldato e climatizzato) e in conformità con la tradizione cinese, monete di tutto il mondo erano state sepolte nelle sue fondamenta (c’erano anche monete coniate appositamente e messe nelle nicchie dell'edificio per allontanare gli spiriti). Un vero palazzo reale della ricchezza. Ma con l’avvento del comunismo la HSBC si trasferì e la struttura divenne sede del governo. Anni dopo ritornò ad essere sede di una banca di investimenti (la Pudong). 

Insomma quest’edificio che in qualche modo fonde oriente e occidente ha avuto un destino instabile e resiliente come i materiali di cui è composta la scultura di Huang Yong Ping: sabbia (fragiltà) e cemento (forza).

‘Bank of Sand, Sand of Bank’ di Huang Yong Ping fino al 9 giugno sarà in mostra alla Gladson Gallery di New York. Ma Huang Yong Ping, che ha già rappresentato la Francia alla Biennale di Venezia, fa spesso mostre in Italia e magari non bisognerà aspettare tanto per vedere il suo lavoro dal vivo senza espatriare. (via two percent)

 all images courtesy of gladstone gallery

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Hong Kong Ballet: Un po’ personaggi di un manga un po’ attori di un musical anni ‘50, i ballerini che danzano per le strade della metropoli

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La compagnia di danza Hong Kong Ballet ha appena presentato la sua nuova campagna pubblicitaria stagionale. Una serie di immagini spettacolari, che fondono gli angoli iconici della metropoli asiatica con le acrobazie dei ballerini. Già, perchè per realizzarla gli artisti hanno dovuto infilare le scarpe da punta e lanciarsi nelle figure più difficili della danza classica nel bel mezzo di Hong Kong.

La campagna pubblicitaria realizzata dall’agenzia creativa statunitense Design Army arriva insieme alla direzione artistica del cubano americano Septime Webre che dopo il periodo passato a tenere le redini del Washington Ballet è sbarcato in Asia con l’intenzione di dare ancora più freschezza e vigore agli spettacoli degli orientali.

L’Hong Kong Ballet, infatti, è attiva dal ’79 (una delle prime compagnie di danza classica in tutta l’Asia) e rappresentando opere che vanno dal XIX secolo ai giorni nostri, ha sempre puntato sull’innovazione.

La campagna pubblicitaria sottolinea, con la forza dei costumi, con i colori intensi e attraverso i luoghi simbolo della città, la voglia di stupire della compagnia pur mettendo in scena dei pezzi classici. Ma a lasciare a bocca aperta sono i ballerini che con la massima, apparente, naturalezza, si esibiscono in contorsioni e piroette in luoghi poco adatti a questo tipo di movimenti. Come su una barca o nel bel mezzo di una via del centro.

L'Hong Kong Ballet fa dei tour in giro per il mondo. Per tenersi informati sui loro spettacoli e sulle suggestive coreografie, tuttavia, ci sono il sito internet della compagnia ma anche il canale youtube e l'account instagram.(via Creative Boom)

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Liu Bolin -The Invisible Man, nascosto tra le bellezze italiane al Vittoriano

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 Liu Bolin, Sala del Trono, Reggia di Caserta, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Sala del Trono, Reggia di Caserta, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Il Complesso Vittoriano di Roma in questi giorni sta celebrando con una grande mostra Liu Bolin, detto anche ‘l’uomo invisibile’ (ne ho parlato qui e qui), l’artista cinese più sfuggente di sempre. Oltre ad essere tra quelli più corteggiati dai brand d’alta moda, ovviamente.
Si intitola, appunto, ‘Liu Bolin. The invisible man’ e oltre ad essere la prima esposizione-evento italiana focalizzata sull’opera del maestro del camouflage orientale, presenta anche due opere in anteprima mondiale. Si tratta delle fotografie delle performance di Bolin che si sono recentemente tenute al Colosseo e alla Reggia di Caserta.

Ma facciamo un passo indietro. 

Liu Bolin, classe ‘73, anni fa, si è inventato un intervento che è diventato il suo marchio di fabbrica e che per la straordinaria duttilità concettuale lo ha accompagnato per tutto questo tempo. In sostanza, Bolin, si dipinge volto, mani e abiti con i colori del paesaggio a cui si giustappone. E lì, immobile, resta, finchè non sono state scattate alcune foto in cui l’artista si intravede appena. Quasi del tutto invisibile, perfettamente mimetizzato come un camaleonte.

Questa serie di interventi che mixano performance, pittura, body painting e fotografia, sono nati per denunciare il governo cinese. Nel 2005, infatti, l’amministrazione di Pechino decise di abbattere il Suojia Village, un quartiere dove avevano sede gli studi di molti artisti, tra cui quello di Liu Bolin. Che si sentì non considerato, trasparente, appunto. 

Da quella prima amara fotografia dell’artista camuffato in modo da sembrare invisibile tra le rovine ne sono seguite molte altre. La tecnica si è affinata, gli assistenti e gli studi preliminari moltiplicati, il malessere scomparso. E Liu Bolin ha cominciato a fare quest’intervento per sottolineare le abitudini contemporanee, puntare l’attenzione sul patrimonio culturale, eventi storici ecc. Ha collaborato spesso con aziende della moda ma non solo. E’ recente il lavoro svolto per il marchio di champagne Ruinart.

Liu Bolin ha viaggiato in tutto il mondo ma l’Italia segna gran parte del suo percorso. Si è mimetizzato un po’ dappertutto. Dall’Arena alla Scala della Ragione di Verona; dal Duomo al contemporaneo Palazzo Lombardia, passando per il Teatro alla Scala di Milano; dal Ponte di Rialto a Piazza San Marco di Venezia; dalla Villa dei Misteri al Tempio di Apollo di Pompei; dal Ponte Sant’Angelo alla Paolina della Galleria Borghese e al Colosseo di Roma; per finire con la Reggia di Caserta.

Liu Bolin. The invisible man’ parla di tutto questo attraverso 70 opere divise in sette sezioni. Qui potete dare uno sguardo a parte del percorso italiano di Liu Bolin Per vedere il resto al complesso Vittoriano c’è tempo fino al primo luglio.

 Liu Bolin, Colosseo n°2, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Colosseo n°2, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

 Liu Bolin, Teatro di Corte Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Teatro di Corte Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

 Liu Bolin, Scalone d'Onore Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Scalone d'Onore Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

 Liu Bolin, Colosseo n°1, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Colosseo n°1, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

 Liu Bolin, Paolina Borghese Bonaparte, Galleria Borghese, Roma. Curtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Paolina Borghese Bonaparte, Galleria Borghese, Roma. Curtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Ponte Sant'Angelo, Roma, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte Sant'Angelo, Roma, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Villa dei Misteri, Pompei, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Villa dei Misteri, Pompei, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Ponte dei Conzafelzi, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte dei Conzafelzi, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.2, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.2, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Piazza San Marco, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Piazza San Marco, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.1, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.1, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Canal Grande, Ponte di Rialto, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Canal Grande, Ponte di Rialto, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Scala della Ragione, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Scala della Ragione, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Ponte di Castelvecchio, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte di Castelvecchio, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Loggia di Fra Giocondo, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Loggia di Fra Giocondo, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Palazzo Lombardia, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Palazzo Lombardia, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin, Arena di Verona, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Arena di Verona, Courtesy Boxart Verona

 Liu Bolin alla mostra 'Liu Bolin. The invisible man'; foto Iskra Coronelli per Arthemisia

Liu Bolin alla mostra 'Liu Bolin. The invisible man'; foto Iskra Coronelli per Arthemisia

L'albero di ciliegio in fiore più grande del mondo è in Giappone e non sfiorisce mai perchè è fatto di LEGO

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L'albero di ciliegio in fiore in mattoncini LEGO più grande del mondo si può ammirare nel parco LEGOLAND Japan di Nagoya. In Giappone, ovviamente.

Sul fatto che superi di gran lunga tutte le opere simili realizzate fin ora non c'è alcun dubbio, perchè si è già guadagnato il suo spazio nel Guinness  dei primati. Per completarlo sono stati necessari ben 881mila e 470 pezzi di vari colori oltre a 6mila e 500 ore di lavoro per assemblarlo.  

Insomma un omaggio monumentale (ben 3mila e 333 chili di peso) in versione pop all'hanami e ai bellissimi sakura, che in primavera donano ulteriore fascino al Giappone. E ulteriore turismo.

L'albero di mattoncini LEGO non incrementerà certo così tanto gli introiti nel settore ma si può ammirare tutto l'anno con non pochi vantaggi. D'altra parte, si tratta di una scultura spettacolare, con un grande tronco striato, un piccolo tappeto d'erba di diverse sfumature e lanterne che si illuminano la notte. E qualche beneficio in termini di turismo può ben pretendere di portare.

Nel video qui sotto potrete vedere la costruzione e l'assemblaggio. (via My Modern Meet)

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Chiharu Shiota crea un pianoforte fantasma da cui una ragnatela si libra verso il soffitto della cappella dello Yorkshire Sculpture Park

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 chiharu shiota, beyond time, 2018 © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

chiharu shiota, beyond time, 2018 © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

Delicata e poetica, ‘Beyond Time’, dell’artista giapponese Chiharu Shiota, è completamente bianca. Se si escludono i fili di metallo nero che disegnano un pianoforte tridimensionale da cui l’installazione si libra verso il soffitto della cappella del XVIII secolo dello Yorkshire Sculpture Park, tutto è candido e poco appariscente.

Per dare vita a quest’ennesima installazione di Shiaru Shiota sul tema della memoria, della perdita, dello scorrere del tempo, sono stati necessari ben duemila gomitoli di lana, tanti spartiti e un consistente numero di ore di lavoro. Shiota, infatti, concepisce le sue eteree sculture come pittura tridimensionale e per crearle intreccia a mano un fitto reticolo di fili. A volte inserendo degli oggetti nelle maglie (in questo caso degli spartiti). Il risultato, più complesso di una ragnatela, è spettacolare e poetico.

‘Beyond Time’ è un affresco tridimensionale dedicato alla storia dell’antica cappella dello Yorkshire Sculpture Park, che intorno al 1744 svolgeva la sua funzione catalizzando una comunità intorno a se. Ed è proprio alle esperienze individuali delle persone che la frequentavano che la scultura fa riferimento. Le loro intere vite dalla culla in poi, rappresentate come un reticolo di fili che s intrecciano tra loro intorno al ricordo di un pianoforte.

‘Beyond Time’, come quasi tutte le installazioni di Chiharu Shiota, è effimera e site specific (cioè creata per il luogo che la sta ospitando). A questo proposito tempo fa l’artista ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla rivista Artnet: "Prima di creare un'installazione, devo vedere lo spazio ed esserne avvolta. Sento come se il mio corpo e lo spirito trascendessero in una certa dimensione. Dopo questo processo, disegno uno schizzo e mostro la mia idea al museo. Ma il risultato sembra sempre molto diverso“. 

Chiharu Shiota (di cui ho già parlato qui) ha rappresentato il Giappone alla Biennale di Venezia del 2015 con una toccante installazione. L’altrettanto commovente ‘Beyond Time’, invece, sarà in mostra alla cappella dello Yorkshire Sculpture Park fino al 2 settembre 2018. (via Designboom)

 chiharu shiota, beyond time, 2018 | white thread, metal piano, musical notes © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

chiharu shiota, beyond time, 2018 | white thread, metal piano, musical notes © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

 chiharu shiota, beyond time, 2018 | white thread, metal piano, musical notes © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

chiharu shiota, beyond time, 2018 | white thread, metal piano, musical notes © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

 chiharu shiota, beyond time, 2018 | white thread, metal piano, musical notes © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

chiharu shiota, beyond time, 2018 | white thread, metal piano, musical notes © VG bild-kunst, bonn, 2018 and the artist, courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

 esterno della cappella, 2013 | courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

esterno della cappella, 2013 | courtesy yorkshire sculpture park | photo © jonty wilde

Simili a dipinti di Hopper le fotografie londinesi a esposizione multipla di Chris Dorley Brown

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Il fotografo e filmmaker inglese Chris Dorley Brown nella sua ultima serie di immagini documenta e ricostruisce il fluire della vita negli incroci di East London. Ne è nato anche un libro che si chiama appunto “The Corners”. 

Per congelare il divenire, Dorley Brown, che vive e lavora nel quartiere londinese dal 1979, ha usato la tecnica dell’esposizione multipla. Ha cioè piazzato una fotocamera in un determinato punto, catturando immagini in lassi di tempo diversi. Gli scatti sono stati infine sovrapposti.

Le fotografie che ne risultano documentano quiete ed abitudini diverse che si incrociano. Un divenire atemporale che, complice il mutare della luce, sembra fondersi nella natura trascendente della pittura. A tratti le immagini arrivano addirittura ad essere surreali.
Ma si tratta pur sempre di un gioco di piccoli spostamenti, minime distanze, che non culmina in contrasti spettacolari ma solo in delicati attriti. 

Tuttavia, la leggera carica elettrica che ne deriva serve a regalare brio al calmo ed abitudinario avanzare della vita negli incroci londinesi passati sotto la lente di Dorley Brown. Un filo di mistero che ben si adatta alla sensazione di sospensione della narrazione. E che, insieme ai colori, richiama alla mente le opere dell’artista statunitense Edward Hopper.
La fotografia ad esposizione multipla nelle mani di Chris Dorley Brown, insomma,  diventa uno strumento di racconto sottile e solo leggermente destabilizzante. 

Per vedere altre fotografie della serie “The Corners” si può far ricorso al sito internet di Chris Dorley Brown. O all’account Facebook. (via Creativeboom)

 Stoke Newington Road, Belgrade Road – 10:31am–10:44am, 28th June 2010

Stoke Newington Road, Belgrade Road – 10:31am–10:44am, 28th June 2010

 St. James Street, Grange Road – 08:46am–09:02am, 4th May 2017

St. James Street, Grange Road – 08:46am–09:02am, 4th May 2017

 Tudor Grove, Well Street – 11:16am–11:46am, 17th March 2010

Tudor Grove, Well Street – 11:16am–11:46am, 17th March 2010

 Sandringham Road, Kingsland High Street – 10:42am–11:37am, 15th June 2009

Sandringham Road, Kingsland High Street – 10:42am–11:37am, 15th June 2009

 Vernon Road, High Road – 08:50am–09:02am, 11th April 2017

Vernon Road, High Road – 08:50am–09:02am, 11th April 2017

 Shepherdess Walk, Micawber Street – 10:39am–11:06am, 6th March 2017

Shepherdess Walk, Micawber Street – 10:39am–11:06am, 6th March 2017

 High Street North, Cranbourne Road – 09:02am–10:06am, 19th April 2016

High Street North, Cranbourne Road – 09:02am–10:06am, 19th April 2016

 Laburnam Street, Haggerston Road – 10:19am–11:03am, 7th April 2011

Laburnam Street, Haggerston Road – 10:19am–11:03am, 7th April 2011

 Lee Street, Stean Street – 10:42am–11:17am, 25th June 2010

Lee Street, Stean Street – 10:42am–11:17am, 25th June 2010

Alex Chinneck fa un nodo ad un antico orologio a pendolo

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Le opere dello scultore britannico Alex Chinneck partono da un’idea semplice (e candidamente umoristica) per approdare a risultati che lasciano a bocca aperta. 
E cosa c’è di più semplice (ma inattuabile) che immaginare di fare un nodo ad un oggetto di solido legno come un antico orologio a pendolo? 
E invece è proprio quello che Chinneck ha fatto in “Growing up gets me down” attualmente in mostra ai grandi magazzini Liberty London

Le installazioni di Alex Chinneck fondono arte, scenografia e rigore tecnico, per raggiungere quello che è stato definito “surrealismo urbano”. Anche se con l’inconscio non hanno niente a che vedere, il paragone non è azzardato. C’è il cambio di consistenza di elementi quotidiani, la sensazione di entrare in un mondo alternativo e la città con la sua storia. Spesso si tratta di interventi su larga scala (come la facciata di un palazzo che scivola per terra). Ma non sempre, perché Chinneck talvolta reinventa anche oggetti quotidiani. Come nel caso di appunto della pendola di “Growing up gets me down”.
Ovviamente non si tratta di una scultura che riproduce una pendola antica ma di un vero orologio d’epoca.

D’altra parte Alex Chinneck recentemente aveva già annodato la colonna di una galleria d’arte (ne ho parlato qui). In mostra ai Liberty London anche una scopa di legno. Annodata, ca va sans dire. (via Designboom)

 alex chinneck, growing up gets me down; all images courtesy of  charles emerson

alex chinneck, growing up gets me down; all images courtesy of charles emerson

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Le ville e i castelli europei abbandonati insieme ai loro pianoforti nelle poetiche fotografie di Romain Thiery

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 Romain Thiery, 'Requiem for pianos'. All Photos Courtesy Romain Thiery

Romain Thiery, 'Requiem for pianos'. All Photos Courtesy Romain Thiery

Nei castelli e nelle ville europee del passato un pianoforte non poteva mancare. E’ facile figurarsi la scena. Meno immediato è immaginare come alcune di quelle stanze, un tempo lussuose, appaiano oggi, dopo decenni di abbandono. E soprattutto che in ognuna di esse ci sia ancora un pianoforte. 

Lo ha scoperto il fotografo francese Romain Thiery, che ha deciso di dedicare una serie di immagini a questa curiosa circostanza. L’ha chiamata ’Requiem for Pianos’ e per realizzarla ha girato tutta Europa.

“Io stesso pianista- scrive sul suo sito web- sento l’emozione prendere il sopravvento quando scopro un piano lasciato all’abbandono. E’ il punto culminante della mia arte: le mie due passioni si ritrovano infine riunite in un solo ed unico sentimento.

Nella serie ‘Requiem for Pianos’, Romain Thiery, mixa romanticismo e inquietudine, struggimento e rifiuto.

D’altra parte Thiery parla della bellezza di fronte allo scorrere del tempo. In qualche modo della morte. Un tema che poteva risultare ostico se il fotografo non avesse livellato le asperità con una luce uniforme ma non innaturale. Il risultato è raffinato: quasi tono su tono. I tagli ariosi e il più possibile simmetrici (in contrasto con la sporcizia e il disordine di una casa abbandonata) fanno il resto.

“In un disordine che da solo pone mille domande si erige quindi un piano che anche se coperto di spessa polvere, non smette di imporre la sua nobiltà, questa grandezza radicata nel profondo della nostra cultura. E sta alla tecnica del fotografo tirare fuori questa bellezza arrogante che spesso relega tutto il resto in secondo piano.”

Per vedere altre fotografie di Romain Thierry, sia della bellissima ’Requiem for Pianos’ che di altre serie, si può dare uno sguardo al suo sito internet. E’ anche possibile seguirlo via Instagram o Facebook.

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Un designer fa danzare le lettere dell’alfabeto in un colorato video d’animazione

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Ci sono lettere dell’alfabeto simili a mobili minimal che fanno ginnastica, bocche di una vasca a idromassaggio che si trasformano in numeri e così via. Le parole d’ordine di questo breve video sono colore e musica. I protagonisti incontrastati: i caratteri tipografici.

Il designer statunitense Ben Huynh ha partecipato alla maratona tipografica (ebbene si esiste anche quella) 36 Days of Types. In cui i creativi di tutto il mondo sono chiamati a proporre una lettera del nostro alfabeto al giorno per 36 giorni. E si è accorto che il risultato di questo sforzo in movimento sarebbe stato molto più espressivo.
In questo breve video Ben Huynh si è, insomma, limitato ad animare tutti i caratteri tipografici che aveva già creato. A fare la differenza è la colonna sonora “Sunrise”, del gruppo tailandese Gym and Swim , che accompagna i movimenti di lettere e numeri, che sembrano ballare. Trasformando il cortometraggio animato in un originale e coloratissimo video musicale.

Per creare i simpatici protagonisti di questo mini-film Ben Huynh si è ispirato soprattutto a forniture per ufficio (graffette, nastro adesivo ecc.), mobili di design e luci al neon.

36 Days of Types, che nasce da un progetto personale di una coppia di designers di Barcellona poi esteso a tutti i creativi via Instagram, ha chiuso le richieste per la nuova edizione all’inizio di questo mese. I caratteri tipografici selezionati si possono vedere su Instagram.

Ben Huynh, da parte sua, non era alla prima esperienza con questa maratona, e già aveva trasformato il risultato in video d’animazione. Per vedere i corti che aveva elaborato ai tempi o le lettere in versione statica basta dare uno sguardo ai suoi account Vimeo ed Instagram. (via Colossal)

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